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LA TRAGEDIA DEL LACONIA (di Marco Aquini)

Il mio nome è Werner, Werner Hartenstein. Sono al comando dell'U-boot 156 e so di avere un bersaglio nel periscopio, molte cose non saprò mai di quella nave e delle tristi storie di chi vi è a bordo… ma so che è un obiettivo militare. Batte bandiera nemica, zigzaga come di norma a luci spente ed è armata, con due cannoni navali da 4,7” pollici, e sei cannoni antiaerei da 3”. E' un obiettivo militare, ne sono consapevole ed agisco di conseguenza.

E' la notte del 12 settembre 1942, di fronte all'isola di Ascension, e con due siluri centro il bersaglio, sono bravo in quello che faccio.

Impartisco l'ordine di emersione e ci ritroviamo di fronte a terribili scene già viste altre volte: centinaia di naufraghi che urlano e si dibattono tra le onde, poche scialuppe stracolme. Ma qualcosa è diverso dal solito, la maggior parte di coloro che urlano lo fanno in italiano. Tiriamo su alcuni di loro è vengo a conoscenza della terribile verità. Ho affondato un transatlantico inglese, Il Laconia, convertito in trasposto truppe che imbarcava 1800 prigionieri di guerra italiani provenienti dal fronte africano.

La situazione è disperata, e freneticamente impartisco l'ordine di recuperare più naufraghi possibili. Il ponte si riempie in un attimo, inglesi, polacchi, italiani. Parlando con questi ultimi inizio a comprendere la portata della tragedia. I polacchi erano i carcerieri e, appena subìto il siluramento, hanno ricevuto l'ordine barbaro di impedire agli italiani di uscire dalle stive. Storie di reduci di El Alamein che si lanciano contro i cancelli sbarrati, armati solo della disperazione ed il peso del loro numero mentre i polacchi sparano a bruciapelo. Poi le scene sul ponte, dove inglesi e polacchi sparano agli italiani che si avvicinano alle scialuppe. E poi la peggiore immagine, quelli in acqua che si aggrappano alle scialuppe e si vedono mozzare le mani. La tragedia è immane, il mio battello nulla può di fronte alla massa di disperati che si agita tutto intorno a noi. Avverto immediatamente:


“Atlantico verso Freetown –affondato inglese Laconia – purtroppo con 1.800 prigionieri italiani – sin ad ora 90 salvati – chiedo ordini.”


L'Ammiragliato ha dato ordine che altri due sommergibili in zona, U-506 di Wurdemann e U-507 di Schacht, vengano in mio soccorso. Hanno anche avvisato il Comando italiano, manderanno il Cappellini. So per certo che passerò dei guai per aver preso l'iniziativa senza attendere la risposta del Comando, il mio secondo messaggio parlava chiaro:


“Ho a bordo 193 uomini, tra cui 21 inglesi. Centinaia di naufraghi galleggiano con cinture di salvataggio.”


L'ho fatto perché la mia coscienza me lo impone ma non basta, passeranno almeno 48 ore o più prima che arrivino gli altri battelli, nel frattempo sono arrivati gli squali e le scene che si sviluppano tra chi è in acqua sono raccapriccianti. Perciò devo fare un passo ancora più pericoloso...e lo faccio senza remore.

Il marconista mi guarda sgomento mentre ascolta i miei ordini: messaggio in chiaro ed in lingua inglese a tutte le navi nemiche in navigazione con esatta nostra posizione. Per un attimo ho creduto svenisse piuttosto che eseguire:


“Qualsiasi nave che soccorrerà i naufraghi della Laconia non sarà attaccata, purché io non sia attaccato da navi o aerei. Ho già raccolto 193 uomini, sottomarino tedesco.”


Messaggio lanciato alle ore 6,00 del 13 settembre, ripetuto tre volte, ma nessuna risposta, eppure sono certo che lo abbiano intercettato.

E' l'alba del 15 settembre, è arrivato l’U-506, raccoglie 132 italiani e 10 tra donne e bambini inglesi, e prende a rimorchio quattro scialuppe con circa 250 persone. Nel pomeriggio giunge anche l'U-507. Prende a bordo 129 italiani, 1 ufficiale inglese,, 16 bambini e 15 donne, e a rimorchio 7 lance con 330 superstiti fra cui 35 italiani. Con me ho 131 superstiti tra cui 5 donne.

Il giorno 16 settembre ricevo questo messaggio da Donitz:


“Per il gruppo Laconia. Avvisi coloniali Dumont-D’Urville-Annamite arriveranno probabilmente mattinata del 17/9. Incrociatore classe Gloire viene a grande velocità da Dakar. Qui appresso istruzioni per contatto.”


Comincio a confidare che il destino del mare ci sarà favorevole.

Ore 11,25 del 17 settembre, allarme aereo. Un Liberator americano ci sorvola. Non possono non vedere la situazione, centinaia di corpi in acqua, zattere e scialuppe rimorchiate e l'enorme telone bianco con la croce rossa steso sul ponte. Decido comunque di inviare un messaggio morse:


“Qui sommergibile tedesco. Ci sono i naufraghi del Laconia, soldati, civili, donne e bambini.”


Nessuna risposta ma il Liberator si allontana, la fortuna è con noi.

Ore 12.32 nuovo allarme aereo, il Liberator è tornato e ci attacca. Ci hanno colpito, una bomba ha centrato in pieno una scialuppa, ordino immersione rapida, ponte sgombrato immediatamente dai naufraghi e sganciamento delle scialuppe a rimorchio. Non posso fare diversamente, la fortuna ci ha abbandonato. Immersione a 60 metri, in attesa.

Son passate ormai diverse ore, ho deciso di riemergere per inviare un messaggio all'Ammiragliato:


“Hartenstein – stop – Lliberator americano ci ha bombardato cinque volte con quattro lance cariche nonostante bandiera di croce rossa di 4 metri quadrati – stop – altezza era si 60 metri – stop – i due periscopi danneggiati – stop – interruzione salvataggio – stop – tutti sgombrati dal ponte – stop – vado a ovest per riparare – Hartenstein.”


Quello che era in mio potere fare l'ho fatto, senza ripensamenti. Ora vado incontro al mio destino, portandomi dietro tutto quello che non saprò mai di quella nave che ho colato a picco.

Tante cose non saprò, poiché tra pochi mesi, 8 marzo 1943 al largo delle Barbados morirò con tutto il mio equipaggio seguendo il mio battello in fondo al mare.

Non saprò mai il bilancio delle atrocità commesse immediatamente dopo il siluramento,

Morti 1350 italiani su 1800, 11 inglesi su 811, 31 polacchi su 103 imbarcati.

Non saprò mai che l'attacco del Liberator verrà ammesso dagli americani molti anni dopo e che nessuno cercherà mai spiegazioni o giustizia, mai nessuno.

Soprattutto, non avrò mai contezza che Mario Lupi, 3° Reggimento Artiglieria di Divisione Celere “Principe Amedeo Duca d’Aosta” sopravvissuto e fatto prigioniero dopo la terribile battaglia di El Alamein, miracolosamente uscito vivo dalla trappola della stiva del Laconia in affondamento, dopo essere stato imbarcato sul mio battello (poi trasferito sul U-boot 507 e poi finalmente sbarcato a Dakar) vivrà fino all'anno 2011.

Nei pochi mesi che mi rimasero da vivere, nell'immane tentativo di sopravvivere e soprattutto salvaguardare il mio equipaggio in un luogo così ostile come l'oceano in guerra, il pensiero di quelle poche vite che riuscii a salvare contravvenendo ordini illogici per persone umane ma ovvi per soldati in armi… quel pensiero mi ha scaldato dentro, ben sapendo che nessun altro probabilmente avrebbe fatto lo stesso con me ed i miei uomini. Se esistesse una macchina del tempo per tornare ai momenti drammatici di quella notte del 12 settembre, farei le stesse cose, sono sempre un ufficiale della Kriegsmarine, ma giorni dopo… non m'immergerei più, e non abbandonerei quei disgraziati in balia delle onde. Ora è tempo di tornare nell'oceano dell'oblio, dove navigo incessantemente a bordo del mio U-boot.


(Il capitano di corvetta Gustav Julius Werner Hartenstein)



(U-156 e U-507 impegnati nel salvataggio dei naufraghi del Laconia)



(U-156 con ponte e torretta stipati di naufraghi del Laconia)

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