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"UN ESEMPIO DI RESISTENZA POLACCA AD AUSCHWITZ" (di Giorgia Sansonetti)

Aggiornamento: 7 set 2023

Edward Galinski chiamato da tutti Edek, nacque a Wieckowiche, un villaggio rurale con poche centinaia di case con tetto spiovente, a quindici chilometri da Cracovia, il 5 ottobre 1923 da una famiglia cristiana polacca. Da bambino si trasferisce con la famiglia a Jaroslaw, una città più innovativa rispetto al luogo in cui è nato, dove il padre trovò impiego presso una scuola secondaria. Crescendo Edek è sempre più orgoglioso della sua Polonia tanto che alla fine degli anni ’30 frequentò con passione e devozione la Pinsk Maritime School, ossia la scuola navale, nella città di Pinsk. Durante le vacanze, lontano dagli studi, era solito tornare a Jaroslaw dalla sua famiglia ma vi trovava di volta in volta un’atmosfera sempre più tesa e preoccupante a causa della minaccia nazista.

Nel 1940 l’incubo divenne realtà: Jaroslaw venne occupata dai tedeschi. Il sedicenne Edek preso dall’amore per la sua patria, non restò ad osservare mentre i nazisti esercitavano la dittatura del terrore. Se da un lato gli ebrei furono costretti ad abbandonare le proprie case, il lavoro, il diritto all’istruzione e una posizione sociale per spostarsi all’interno dei ghetti, tutto ad un tratto i polacchi si videro forzati a regole umilianti come il dover attraversare a testa alta una strada girando l’angolo sulle strisce pedonali esattamente di novanta gradi e se durante il loro cammino incrociavano un soldato tedesco, erano obbligati a sollevare il cappello in segno di rispetto. Per il popolo del Terzo Reich il polacco era solo un essere da trattare con disprezzo e superiorità immaginando una Polonia libera non solo dagli ebrei ma anche dai polacchi per aumentare il proprio “spazio vitale”.

Nel frattempo, Edek, era in contatto con la resistenza locale attraverso amici che incontrava durante i periodi di pausa dalla frequentazione della Maritime School ossia in estate o festività come Natale e Pasqua. Suo padre, come ogni genitore amorevole e preoccupato per l’avvenire del figlio, lo vorrebbe lontano dal fronte ma Edek non si rivedeva in quel tipo di uomo che il genitore desidererebbe tenere al sicuro, cosi si tuffò nella politica, partecipò alle riunioni e distribuì stampe clandestine con notizie dalla BBC. La situazione a Jaroslaw si fece sempre più critica a causa dell’AB-AKTION pianificata dalla Gestapo contro l’Intellighenzia polacca che nel giro di appena sessanta giorni portò all’arresto di oltre trecentomila persone tra insegnanti, studenti, preti e attivisti politici. Una parte di loro fu massacrata sotto colpi d’arma da fuoco in foreste o luoghi isolati sentendo come ultimo suono un comando in una lingua che non apparteneva alla loro terra e lo sparo di un mitra o revolver. Quanti corpi caddero gli uni sugli altri mentre il sangue sgorgava dai fori dei proiettili sporcandone la pelle sotto lo sguardo soddisfatto delle Einsatzgruppen.

Tutti gli altri che scamparono a questo destino furono caricati nei primissimi vagoni diretti al lager di Oswiecim meglio noto con la pronuncia in tedesco “Auschwitz”.


Edward Galinsky, foto a colori (all’inizio i prigionieri li registravano con la fotografia poi smisero perché richiedeva troppo tempo e denaro)


La parola “lager” è traducibile in italiano in “magazzino”, non a caso i detenuti che vi erano all’interno venivano definiti “stucke” che tradotto vuol dire “pezzi”. Questo sottolinea quanto i nazisti consideravano dei subumani coloro che venivano deportati in queste fabbriche della morte.

Il 27 aprile del 1940 Himmler, responsabile dell’ufficio centrale delle SS e della Gestapo, scelse accuratamente la città di Oswiecim in quanto essa disponeva di una buona rete di comunicazione ferroviaria il che era ottimo per far arrivare ad Auschwitz treni che partissero da ogni parte d’Europa. Dove fu realizzato il lager ossia fuori dal centro abitativo in modo che in futuro potesse essere amplificato, c’erano già pronte diverse ex caserme di artiglieria polacca in muratura color rosso destinate a diventare dei blocchi ognuno con il proprio numero con funzionalità diverse. Tutta l’area fu recintata con del filo spinato elettrificato a una potenza di 400W arrivando a contenere al suo interno diecimila detenuti. Inizialmente Auschwitz non fu un campo di sterminio ma di concentramento per quei prigionieri della classe intellettuale polacca che erano rimasti in vita.

Dopo sette settimane dall’ordine di Himmler di preparare il lager, in una serena giornata di sole, il 14 giugno 1940 arrivò ad Auschwitz il primo trasporto di 728 polacchi. Edward Galinski era uno di questi. Quando le porte del vagone si spalancarono, furono immediatamente travolti dalle grida di insulti delle SS che con aria intimidatoria ordinarono loro di scendere dal treno. Queste erano allineate in file che portavano verso l’interno del campo. Urla, botte e spinte accompagnarono la corsa dei nuovi arrivati oltrepassando il cancello d’ingresso aperto con la famigerata scritta “ARBEIT MACHT FREI”. Ad attenderli non ci fu solo il personale delle SS ma anche uomini vestiti con pantaloni e giacche a strisce su cui erano stati cuciti dei triangoli verdi con un numero da 1 a 30. Questi ultimi erano criminali comuni di nazionalità tedesca detenuti nel campo di Sachsenhausen. Arrivarono ad Auschwitz il 25 maggio 1940 sotto il comando di Rudolf Hess con il ruolo di sovrintendenti o uomini di fiducia per le SS. Nel gergo del lager furono definiti Kapò. Armati di un grosso bastone che facevano ondeggiare a destra e sinistra continuamente colpirono più volte i corpi delle povere vittime posizionandole fino a formare delle linee rette. Successivamente Edek insieme ai suoi compagni furono privati degli effetti personali per poi essere rasati e depilati da ogni parte del corpo e finire con un bagno in acqua ghiacciata. In seguito fu loro consegnato una linguetta di cartone con un numero che sostituì il nome. A Edward Galinski toccò il numero 537. Più tardi una SS li informò che a partire da quel momento erano in custodia preventiva e condannati a trascorrere il resto della loro vita nel campo di concentramento di Auschwitz, e che ogni resistenza o disobbedienza sarebbe stata punita duramente e che chiunque avrebbe provato a fuggire sarebbe stato condannato a morte. Nonostante il clima aggressivo del posto, cosa fosse esattamente un campo di concentramento il giovane Edek lo stava per scoprire.

Nei primi mesi dell’attività di Auschwitz, il lager si presentava come una specie di cantiere nel quale i deportati ogni giorno tra punizioni e percosse furono costretti a lavorare asfaltando le strade tramite un pesante rullo spinto manualmente e costruendo ulteriori blocchi in muratura. Che ci fosse il sole di mezzogiorno che picchiava forte sopra le loro teste o il freddo pungente degli inverni in Polonia poco importava ai tedeschi. Occorreva continuare ad ingrandire il campo in modo da accogliere un totale di diecimila persone. Nemmeno la pioggia riuscì a regalare un po' di tregua. La malnutrizione e la fatica iniziarono a essere visibili sui loro corpi e la consapevolezza che prima o poi sarebbe sopraggiunta la morte era evidente a tutti. L’unico modo per resistere era riuscire a trovare un impiego che fosse almeno al riparo degli eventi atmosferici, così Edek si affidò alla sua capacità manuale di metalmeccanico riuscendo a farsi assegnare al reparto di installazioni idrauliche. Ciò gli permise di possedere diversi lasciapassare per muoversi all’interno del lager in base ai lavori che gli venivano affidati oltre ad avere il vantaggio di razioni più abbondanti di cibo e l’accesso libero alle docce per lavarsi. Iniziò così a far parte di quella categoria di detenuti definiti “privilegiati” eppure non suscitò ostilità tra i compagni, anzi continuò a disprezzare i kapò per il loro modo violento di agire e ad aiutare quando poteva e come poteva gli altri. In cuor suo fu costante il desiderio di ritornare a battersi con la resistenza polacca.

Nel frattempo iniziarono anche i lavori da parte della ditta tedesca J.A.Topf und Sohne per la preparazione del primo crematorio progettato per poter incenerire fino a trecentoquaranta corpi al giorno. Il primo marzo del 1941 Heinrich Himmler fece visita ad Auschwitz per la prima volta per ispezionarlo. Ne fu così soddisfatto che ordinò l'espansione del campo a Brzezinka poco distante da un bosco di betulle. Il nuovo lager, che prese il nome di Birkenau, doveva essere trenta volte più grande del precedente in modo da potervi contenere all’interno della recinzione elettrificata a una potenza di 760W complessivamente duecentomila detenuti. Diversi civili furono chiamati per velocizzarne la costruzione ed è proprio a quel punto che Edek instaura con loro un rapporto di fiducia con lo scopo di fuggire da Auschwitz e far conoscere al resto del mondo cosa vi accadeva internamente. Non era il solo a progettare tale fuga, altri pionieri del campo arrivati nello stesso convoglio come Wieslaw Kielar, con il quale si legò maggiormente, formarono una rete clandestina.

Il 20 gennaio del 1942 a Berlino durante la conferenza di Wannsee, in cui parteciparono personaggi di spicco del regime nazionalsocialista come Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann, furono definiti gli aspetti organizzativi della “soluzione finale della questione ebraica”. Iniziò così l’effettiva deportazione e la conseguente uccisione di massa dei civili di origine ebraica nei campi di sterminio. Appena un mese dopo, il 15 febbraio arrivò ad Auschwitz il primo trasporto di soli uomini ebrei. Le donne vi arrivarono il 26 marzo. Passarono ben quattro anni da quando Edek fece il suo ingresso al campo e l’idea di fuggire fu sempre presente nella sua mente. Era arrivato il momento di agire ma non da solo, Wieslaw sarebbe scappato dal campo insieme a lui. Il piano fu quello di travestirsi da SS e così vestiti uscire dal campo per poi dirigersi a Bielsko a circa trenta chilometri di distanza, dove viveva Antoni Szymlak, uno dei pochi civili che lavorò alla costruzione iniziale del campo dove strinse amicizia con Edek. Dopo un breve soggiorno a casa di Antoni, il viaggio sarebbe proseguito fino a raggiungere i partigiani a Jaroslav per unirsi a loro contro i nazisti. Bisognava solo procurarsi delle uniformi.

Edek era ormai un veterano del campo e si muoveva con una certa sicurezza, sapeva come parlare e soprattutto con chi parlare così conobbe il ventiduenne polacco-tedesco Edward Lubusch, una SS originaria di Bielsko da parte di madre. Nonostante il suo ruolo nel complesso di Auschwitz, Lubusch non usò mai la violenza, per quanto poteva, contro i detenuti anzi era solito intrattenersi volentieri con i prigionieri polacchi. Fu in una di queste chiacchierate che l’SS lo rassicurò che sarebbe stato lui stesso a procurare loro le due uniformi in cambio di duecento dollari e consigliò Birkenau come via di fuga più “semplice” rispetto a Auschwitz 1. Seguendo il suggerimento di Lubusch, Edek riuscì a farsi trasferire insieme a Wieslaw nei pressi tra l'ospedale maschile e il magazzino di smaltimento e riciclo dei beni predati ai deportati e ai cadaveri, soprannominato “kanada” nel gergo del campo. Sarebbe stato quest’ultimo il luogo della compravendita illegale del pacco con all’interno le divise da SS.

Era il 1944, Edek dirigeva un gruppo di operai nel campo di Birkenau tra il settore maschile e quello femminile. Fu così che conobbe Mala Zimetbaum, una ragazza ebrea polacca di ventisei anni arrivata al campo il 17 settembre 1942.


Mala Zimetbaum prima della sua deportazione



Grazie al fatto di saper parlare e comprendere cinque lingue tra cui il tedesco, i nazisti la impiegarono come traduttrice aggiudicandosi così un posto tra i “privilegiati”. Anche lei come Edek, era spinta dall’idea di fuggire da Auschwitz per far conoscere al resto del mondo cosa vi accadeva sperando in un intervento di aiuto da parte degli Alleati. Edward fu sin da subito affascinato da Mala. In breve tempo i due intrapresero una relazione amorosa. Da quel momento il piano di fuga di Edek cambiò: Mala, vestita da prigioniero, sarebbe uscita dal campo insieme a lui e all’ amico Wieslaw. Quest’ultimo, venuto a conoscenza dell’aggiunta della ragazza, si ritrasse. Era già complicato fuggire in due, figuriamoci in tre tra cui una donna. A scappare sarebbero stati solo Edek e Mala cosa che avvenne il 24 giugno del 1944. La loro fuga durò per poco tempo: vennero ricatturati e portati all’interno di due celle poco distanti tra loro nel seminterrato del Blocco 11 ad Auschwitz il 27 luglio dello stesso anno. Qui furono interrogati e torturati ma dalla loro bocca non uscì mai la verità su chi gli avesse aiutati a fuggire. L’esecuzione tramite impiccagione avvenne il 15 settembre 1944 a Birkenau sotto gli occhi di migliaia di detenuti per far comprendere loro cosa accedeva a chi tentava di lasciare il lager.

Nel campo maschile, Edek con le mani congiunte dietro, legate da un lascio e accompagnato dal boia, si avviò verso il patibolo per poi montare sullo sgabello di legno posizionato sotto la forca. Il cappio circondò il suo collo. Dopo il comando “Achtung!” una SS lesse la sentenza in tedesco. In quel preciso momento, Edek calciò via lo sgabello e penzolò. Non avrebbe mai dato la soddisfazione ai nazisti di ucciderlo. Ma le SS non gli avrebbero mai consentito tale dimostrazione davanti a tutti perciò urlando lo posizionarono nuovamente sullo sgabello e allentarono il cappio. Il tedesco finì di leggere la sentenza. Questa volta Edek aspettò. Prima di morire gridò con voce soffocata “VIVA LA POLONIA!”.

Contemporaneamente nel campo femminile, mentre Maria Mandel pronunciava l’atto d’accusa, Mala si tagliò i polsi con una lametta che tenne nascosta, in quell’istante una SS le si avvicinò ma Mala con la mano che schizzava sangue schiaffeggiò il viso del tedesco. Le SS infuriate la prestarono quasi a morte. Mala morì su un carretto trainato da delle detenute lungo la strada per il crematorio.

Qualche giorno prima della loro morte, Edek incise sul muro della cella il suo nome e quello di Mala con i numeri di matricola e il giorno dell’arresto. Le incisioni sono visibili tutt’oggi.


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